Rientrate, almeno in parte, le preoccupazioni dovute alla c.d. Web Tax

Probabilmente nei giorni scorsi avete letto o sentito parlare della c.d. Web Tax, argomento che inizialmente ha determinato molte preoccupazioni, tanto da spingere alcuni a dichiarare internet morto! Naturalmente le reazioni non sono mancate e forse anche grazie alle petizioni online, il provvedimento è stato rivisto e ridimensionato, non andando più a colpire le aziende di e-commerce, ma solo i servizi pubblicitari online.

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A differenza di quanto era previsto dalla versione precedente della legge di stabilità, grazie all’emendamento in questione le attività di commercio elettronico (svolte ad esempio da Amazon, Ebay e dalla stessa Apple con il suo Apple Store), continueranno ad essere assoggettate alla normativa fiscale che già le interessava fino ad ora, al contrario i servizi pubblicitari o altri servizi online (offerti ad esempio da Google o dalla stessa Apple con la sua iAD) potranno essere acquistati solo da società con partita IVA italiana. Per fare un esempio: Google, che fino ad ora emetteva le fatture per tale tipologia di servizi tramite la sua società irlandese, fin tanto che non si organizzerà per fatturare con partita IVA italiana, non potrà più vendere le sue campagne pubblicitarie Adwords in Italia.

Secondo quanto dichiarato da Francesco Boccia, il deputato del PD fautore dell’emendamento, la c.d. Web Tax, però, nonostante il nome, non costituirebbe una nuova tassa su tali servizi, ma semplicemente un meccanismo ideato per tracciare quei volumi di affari realizzati dalle multinazionali in Italia e che fino ad ora, per dinamiche fiscali, sfuggivano alla tassazione. Sempre avendo in mente il caso Google, Boccia ha chiarito che mentre fino ad oggi i proventi dei servizi pubblicitari finivano direttamente in Irlanda, con le nuove norme i compensi dovranno essere pagati in Italia, così come le conseguenti tasse. Ciò avverrà grazie al “Ruling” ed ai due meccanismi della partita Iva e della tracciabilità. In teoria ciò non dovrebbe avere ripercussioni sull’acquirente del servizio, per il quale l’unica differenza sarà che ora pagherà ad una partita IVA italiana e riceverà fattura da questa, rimane, però, da vedere come reagiranno le multinazionali in questione.

Partita IVA e tracciabilità sono concetti grosso modo noti a tutti e che quindi non necessitano di spiegazione, vediamo invece cosa si intende per “ruling”:  si tratta di un meccanismo in base alla quale le aziende internazionali che intendono offrire servizi multinazionali dovranno rivolgersi direttamente all’Agenzia delle Entrate per stabilire il regime di imposta attraverso cui calcolare il proprio reddito.

Va da se che questa mutata e più gravosa situazione fiscale potrebbe comportare qualche reazione da parte delle aziende che offrono la tipologia di servizio colpita; ad esempio, Google potrebbe avere meno interesse ad offrire in Italia i propri servizi pubblicitari o “compensare” il decremento dell’utile netto derivante dalla maggiore tassazione con un aumento del costo del servizio a monte. Senza contare che le piccole aziende internazionali che prima offrivano servizi pubblicitari, laddove non potessero o non ritenessero vantaggioso aprire una partita IVA italiana, potrebbero ritirarsi dal nostro mercato.

In aggiunta a quanto sopra, comunque, ulteriori problematiche sono già state ipotizzate anche da Algirdas Semeta, portavoce del commissario europeo sulle materie fiscali, che ha dichiarato che l’emendamento, per come è scritto ora, determina il sorgere di una serie di dubbi, dal momento che sembra andare contro le libertà fondamentali e i principi di non discriminazione stabiliti dai Trattati.

La c.d. web tax, comunque, non è stata ancora definitivamente approvata, rimane quindi da vedere come andrà a finire…

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