IMMUNI: analizzando i numeri, ecco perché l’app di contact tracing italiana è destinata a fallire

L'app IMMUNI nasce con altissime probabilità di insuccesso. Potrebbe essere un fallimento annunciato e sono i numeri a dirlo.

Tutti sanno che IMMUNI è il nome dell’app scelta dal Governo Italiano per aiutare il contenimento del contagio COVID-19. Eppure, numeri alla mano, sarà estremamente difficile che possa risultare davvero efficace.

smartphone covid

Le premesse

Sono passati ormai due settimane da quando il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri ha firmato il contratto di concessione gratuita della licenza d’uso sul software che verrà rilasciato dalla software house Bending Spoons. L’accordo nasce seguendo un modello nato in oriente e presuppone un tasso di adozione particolarmente elevato da parte della popolazione per far si che raggiunga gli scopi promessi.

Se paesi “diversamente democratici” possono permettersi il lusso di imporre dall’alto l’adozione di questa app, nel mondo occidentale sarà invece necessario convincere la popolazione ad installarla volontariamente. Pur non essendo ancora stata pubblicata la relativa privacy policy, ricordiamo che per essere aderente al GDPR il software dovrà essere strutturato secondo la logica per la quale il cittadino concede il diritto ad usare i suoi dati per una determinata finalità. La quale NON è il contenimento del virus, bensì ESSERE AIUTATO A DECIDERE se porsi autonomamente in autoisolamento a seguito della notifica ricevuta dall’app dopo un avvicinamento a persona DICHIARATASI contagiata. Di qui se ne deducono chiaramente i tre principi fondamentali per il lancio di IMMUNI (o altre app di contact tracing):

  • installazione volontaria
  • no utilizzo GPS
  • una volta finita l’emergenza, cancellazione dei dati

I problemi

In base a queste premesse, balzano agli occhi alcuni aspetti davvero critici che renderanno piuttosto difficile l’affermazione di un modello frutto di culture lontane dalla nostra.

I numeri

Innanzitutto gli aspetti puramente numerici. L’app, per essere davvero efficace, deve essere installata e utilizzata da almeno il 60% di tutta la popolazione, non solo di coloro che hanno uno smartphone.

Analizzando gli ultimi dati nazionali aggiornati a gennaio 2020, scopriamo che su una popolazione di quasi 60 milioni e mezzo di persone, abbiamo circa 80 milioni di smartphone in circolazione. I più ottimisti quindi potranno cantare una prematura vittoria: sarà facilissimo raggiungere il fatidico quorum necessario ad IMMUNI per superare il suo traguardo.

utenti internet italia

Aggiornamento post pubblicazione: a causa del crollo del mercato degli smartphone nel Q1 2020, le cifre estrapolate dal report possono considerarsi attuali anche se risalenti a gennaio 2020.

Andando però un po’ più a fondo, scopriamo che oltre 49 milioni di concittadini “utilizzano Internet”, ma solo 35 milioni di essi sono attivi sui più noti social network. Di questi, il 98% si connette da dispositivi mobili.

Cosa possiamo dedurre da queste cifre? Capiamo che, nonostante gli 80 milioni di smartphone sul nostro territorio nazionale, molti di essi sono o secondi telefoni o smartphone utilizzati al minimo delle proprie capacità, perché obsoleti o perché in mano a persone che lo utilizzano come un Nokia di 15 anni fa. Figuriamoci se queste sono in grado, spontaneamente e senza coercizioni o aiuti esterni, di installare un’app come IMMUNI.

Dall’altro lato, possiamo dire che chi utilizza un social network ha di solito sufficiente dimestichezza nell’utilizzo di uno smartphone da essere capace di scorrere nel catalogo di App Store o Google Play, scegliere la app corretta, scaricarla e concederle i relativi permessi di sistema.

Possiamo quindi concludere che solo se tutti i 35 milioni di utenti italiani capaci di installarsi un’ app decidessero di adottare IMMUNI, arriveremo alla soglia di quel 60% di popolazione che aderisce al contact tracing.

Nello scenario italiano questa cifra sarebbe forse raggiungibile con relativa facilità qualora venga imposta dalle autorità, come successo nelle nazioni orientali. Ma, coerentemente con l’orientamento europeo, il nostro Governo ha già dichiarato che non ci saranno obblighi di sorta e nemmeno limitazioni a chi deciderà di non utilizzare IMMUNI. Questo rappresenta un limite davvero significativo alla diffusione dell’app. E di conseguenza alla sua capacità di raggiungere i suoi obiettivi.

Il confronto si sposterà ora sul piano prettamente comunicativo: il cittadino medio dovrà essere convinto ad installare l’app allo stesso modo di quando deve essere persuaso ad acquistare un prodotto. Non è un caso che nel team sia presente anche un’agenzia di marketing come Jakala.

I falsi positivi

Un altro aspetto che renderà quasi sicuramente vana l’efficacia di IMMUNI se non opportunamente arginato è l’affidabilità dello status di “contagiato”. Infatti non sono ancora chiare le modalità con le quali una persona verrà identificata dal sistema come potenzialmente contagiosa.

Se questa segnalazione avverrà solo a seguito di un tampone di verifica, nulla questio. Ma se lo status avverrà anche tramite “autosegnalazione”, c’è da scommettere che non saranno rari i casi di mitomani autosegnalatisi come pericolosi: andranno tranquillamente in luoghi affollati per il solo gusto di farlo e gustarsi le conseguenze. Scenari di questo tipo già accadono con le tristemente famose segnalazioni anonime sulla presenza di un ordigno in un edificio, con la enorme differenza che nel caso di IMMUNI il panico sarà molto, molto più esteso.

La chiave di volta, ancora tutta da chiarire, sarà quindi l’attendibilità delle dichiarazioni di “contagioso” inserite nel sistema.

L’alternativa

Viene da domandarsi come mai lo Stato non voglia invece approfittare dei dati che già dispone, implementando un modello matematico data-driven simile a quello adottato in Veneto, dove il tasso di contagiosità è passato, in meno di due mesi, da un R0 pari a 3,405 all’attuale 0,7 (10 persone infette ne contagiano 7).

Il Governatore Zaia infatti ha adottato una piattaforma per l’analisi dei dati chiamata Digital Enabler, in grado di incrociare in tempo reale i dati pubblici che provengono da molteplici fonti attendibili: laboratori di analisi dei tamponi, database anagrafici (dove si sa per certo l’identità, dove si abita, qual è lo stato di famiglia), fonti legate al mondo del lavoro (dove e con chi si lavora) o della scuola.

Tutti questi dati sono già disponibili alle pubbliche autorità, senza alcuno dei problemi descritti sopra e senza ledere la privacy dei cittadini.

Di fatto si ottiene una vera e propria sorveglianza biometrica in grado di ricostruire le relazioni e con esse la probabilità di contagio: ad esempio, se un utente con moglie e figli risulta positivo è altamente probabile che li abbia contagiati così come per i colleghi di lavoro.

Grazie a questo approccio guidato dai dati è possibile creare con grande precisione una mappa epidemiologica, arrivando ad identificare non solo il comune, ma anche la via e il civico coinvolti nel focolaio.

Come mai non è stato adottato a livello nazionale? Probabilmente per le scelte squisitamente politiche che hanno spinto il Governo a non selezionare Digital Enabler, anch’essa presente a inizio marzo fra le candidate al vaglio del ministero dell’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione, in favore di IMMUNI. Ricordiamo che l’app IMMUNI dovrebbe comunque integrare le API di Apple e Google in grado di garantire un’elevata protezione della privacy, ma questo non toglie che la premessa è la stessa: dovranno installarla 35 milioni di persone…

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