Danny Boyle parla del film “Steve Jobs”

In una recente intervista rilasciata per l’anteprima italiana del film Steve Jobs, il regista Danny Boyle ha parlato del taglio che ha voluto dare al film e del suo modo di interpretare la vita del co-fondatore di Apple.

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Steve Jobs si svolge nei backstage pochi minuti prima dei lanci dei tre prodotti più rappresentativi nell’arco della carriera di Jobs – partendo con il Macintosh nel 1984 e finendo con la presentazione dell’iMac nel 1998 – portandoci, appunto, dietro le quinte della rivoluzione digitale, per tratteggiare un ritratto intimo dell’uomo geniale che è stato il suo epicentro.

Ci racconti cosa le è passato per la testa quando ha ricevuto la sceneggiatura di Aaron Sorkin e l’ha letta per la prima volta. Cosa c’era nel copione che Le ha fatto venir voglia di fare questo film?

Ho letto la sceneggiatura e ho pensato che sarei stato un pazzo a non fare il film. Mi ha lasciato senza fiato. Ho pensato che non avevo mai fatto nulla di simile prima. Le sfide che presentava – il suo essere completa e autosufficiente, il suo meraviglioso esercizio linguistico—mi intrigavano immensamente. Anche il personaggio di Steve Jobs che Aaron aveva creato – lo Steve che esiste nel copione che, per certi versi, combacia con quello storico e per altri no —mi affascinava enormemente. E’ un personaggio di proporzioni shakespeariane. E’ ipnotizzante, violento e divertente. 

Lei ha detto che il film non è un biopic e che non è un tentativo di raccontare una storia che si attiene rigidamente ai fatti della vita di Jobs. Nonostante questo Lei descrive figure vere e realmente esistenti. Quali elementi delle figure reali – di Steve Jobs, e dei vari membri della sua squadra – ha incorporato nella storia?

Siamo molto grati al libro di Walter Isaacson e alla profondità delle sue ricerche, ma volevamo che il film fosse un viaggio diverso. Sorkin descrive il film come un “ritratto impressionista”. Ci sono idee che vengono chiaramente dalla vita reale, ma il film è un’astrazione. Prende gli eventi – alcuni veri, altri immaginati – e li comprime all’interno di tre atti, strutturati intorno ai lanci del Macintosh nel 1984, del NeXTcube nel 1988 e dell’ iMac nel 1998. Per tre volte compaiono sei personaggi, 40 minuti prima che ogni prodotto venga lanciato, e parlano semplicemente tra loro. Questa non è vita vera; è una versione amplificata della vita vera. Il copione di Sorkin parla di molto più che di Steve Jobs come persona. Lui ha cambiato una delle cose più preziose e vitali delle nostre vite, che è il modo in cui comunichiamo, in cui interagiamo gli uni con gli altri – eppure molti dei suoi rapporti erano profondamente disfunzionali. 

Prima delle riprese, ha messo in bilancio lunghi periodi di prove e ha provato e girato ogni atto separatamente, in sequenza. Può parlarci un po’ del perché è arrivato a questo piano e di come il film finito, e le interpretazioni degli attori, ne hanno tratto vantaggio?

Una delle cose straordinarie della lingua di Aaron è il ritmo, la sua propulsione. Non vedevo l’ora di vedere gli attori parlare quella lingua ma sapevo anche che sarebbe stato molto impegnativo per loro.
Visto che ci sono tre lanci, ci siamo concentrati su una parte per volta, provando e poi filmando ogni atto separatamente e in sequenza. E’ molto raro nel cinema che si giri in sequenza, ma questo ha dato alle interpretazioni e alla storia una specie di slancio. Ha permesso agli attori di impegnarsi su quell’unico atto e di concentrarsi sul modo in cui sarebbero apparsi, su come sarebbero suonati e sul modo in cui si sarebbero sentiti in quel momento della vita del loro personaggio. Ha permesso loro di fermarsi e di fare il punto della situazione. Gli attori sono sempre in movimento, durante tutto il corso di ognuno di questi atti. Questo succede in parte, ovviamente, perché queste persone si trovano nel bel mezzo dei preparativi finali per un lancio e ci sono cose dell’ultimo minuto di cui occuparsi, ma è anche molto intenzionale perché fa parte della filosofia di Jobs. Lui camminava e parlava. Non voleva sedersi e fare meeting o riunioni noiose. Voleva sempre camminare e parlare perché questo dava un certo slancio all’iniziativa, qualsiasi essa fosse. Abbiamo affrontato le prove e le riprese in un modo che mi auguravo fosse fisicamente liberatorio per gli attori. 

Perché ha deciso di girare tutto il film a San Francisco?

San Francisco è la Betlemme dell’era digitale, la patria della seconda rivoluzione industriale. Io vengo dal nord dell’Inghilterra, da Manchester, nota come il luogo in cui è nata la Rivoluzione Industriale 200 anni fa. E proprio come Manchester, San Francisco è impregnata della sua storia e del suo proprio mito. Mi sono subito identificato con l’idea di fare questo film a San Francisco. Spero che il film, per qualche strana sorta di osmosi, prenda qualcosa da questo. Ho sempre pensato che se si rispetta il luogo in cui si fa un film, questo ti ricompenserà… attraverso la comprensione e l’apprezzamento tuo e degli attori di quello stesso luogo. Durante le riprese, ci sono state anche persone che erano presenti ai tre lanci originali che, per nostro volere o per caso, abbiamo conosciuto.

Ha marcatamente differenziato i tre spazi nei suoi tre atti. Perché?

E’ vero. Quello che sin dall’inizio mi ha attirato del copione è stato proprio questo: mi sono chiesto come avrei potuto presentare queste tre scene dietro le quinte in maniera dinamica e con la maggiore tensione possibile. E abbiamo deciso di ambientarle in tre luoghi differenti, ognuno dei quali dava qualcosa di particolare – un sentimento particolare, una storia particolare – a ogni atto.

Come siete arrivati alla scelta dell’Auditorium Flint come luogo per il lancio del Macintosh nel primo atto?

L’Auditorium Flint al Community College De Anza, nel cuore di Cupertino, è il luogo in cui, nel 1984, si è svolto il lancio del Macintosh nella realtà. Quel palco è stato quello da cui Steve Jobs quel giorno ha presentato il Macintosh. Stavamo ripercorrendo i suoi passi, anche letteralmente, perché essendo un teatro semplice, funzionale è un po’ casereccio, basico e rozzo. Ha un’atmosfera quasi dozzinale … i primi tempi delle presentazioni!

 

Può parlarci, invece, del suo lavoro con Michael Fassbender?

Non ho mai lavorato con un attore che ha fatto un percorso come quello di Michael o che ha una dedizione così intensa. Non l’ho mai visto guardare il copione, e aveva battute alla Amleto o Re Lear da recitare ogni singolo giorno. Ha assorbito il copione in un modo che non ha nulla a che fare con l’imparare a memoria, non è mai stata una questione di ricordare quando dire una cosa. Conosceva quel copione come se l’avesse scritto lui, e questo ha dato alla sua recitazione una forza che dava l’impressione che lui fosse capace di creare qualcosa davanti a te dal nulla. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di molto jobsiano in Michael. Ha una gran dote che è l’incredibile intensità che mette nell’applicarsi in quello che sta facendo. E’ davvero un attore che intimorisce. 

Che storia racconta la musica in ognuno degli atti? Può parlarci del suo approccio, e di quello del compositore Daniel Pemberton, alla colonna sonora?

Il primo atto è stato influenzato dai primi suoni dei computer. Gli spettatori sono nella stragrande maggioranza nativi digitali, e questo è sempre più vero, ogni anno che passa. Non si ricordano com’erano i primi tempi della rivoluzione digitale, la nascita di un sound digitale che, a quel tempo, sembrava quasi futuristico. Questo mi interessava, e Daniel ha utilizzato questa sorta di suoni retrò in modo bellissimo. Ci sono due movimenti musicali nel secondo atto. Uno è una specie di operetta – l’allegro all’inizio è spensierato e quasi capriccioso. Anche il secondo movimento è operistico, ma ha un peso maggiore dato che l’atto procede verso la sua vigorosa conclusione. Questo atto viene anche integrato con un numero di scene che vedono Sculley e Jobs insieme nel corso degli anni che intercorrono tra questo e il 1984. Il terzo atto è molto minimale ma elegante. E’ sobrio e semplice…un po’ come i prodotti di Jobs.

A un certo punto del film, Steve si paragona a un direttore d’orchestra…

Jobs non era un ingegnere o un programmatore. Le sue conoscenze come ingegnere erano basiche, ma lui era capace di sintetizzare tutte le sue altre abilità. Questo è quello che fai da regista, veramente. Io non capisco le cineprese o le luci nel modo in cui le conoscono un capo dipartimento o uno specialista in uno di questi campi. Di sicuro non so fare un costume, ma so sintetizzare le abilità di tutti questi esperti, o almeno spero.

Cosa spera che gli spettatori portino via dal film?

Spero che quando gli spettatori vedranno il film vedranno come il mondo sia stato cambiato da quello che questo personaggio è stato in grado di fare grazie alla sua energia, alla sua forte motivazione, alla sua intelligenza e alla sua folle dedizione e passione – ma anche il prezzo che ha pagato a livello personale. Per quanto sia un genio visionario, la misura della vera conoscenza di sé e l’umanità arrivano solo quando Steve capisce di essere malato.
In realtà, io non sono in grado di dirvi cosa farvene del film proprio come Steve Jobs non può dirvi cosa scrivere sui vostri iPad! Come narratore di storie, vuoi lavorare su qualcosa di bello, per poi darlo alla gente; quello che le persone ci trovano – e questo è il bello e il brutto di questo lavoro – dipende da loro.

Il film Steve Jobs uscirà in Italia il prossimo 21 gennaio

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